Domandare per esistere, comprendere, evolvere. Per fronteggiare il naufragio pubblico e privato. Ed edificare con coscienza e virtù il proprio benessere.
La proprietà di rendersi ragione di sé e delle cose, si sa, segna tradizionalmente il passaggio dall’ignoranza alla sapienza. Si tratta, come per ogni attività umana, di una conquista cui si procede per tappe. Accelerazioni e lunghe soste, avanzate spedite, rallentamenti, intoppi e riflussi insegnano a riflettere con profondità ed esattezza. Né l’era del pensiero debole sembra aver – per fortuna! – soffocato nel singolo il grido delle domande vigorose.
Chi sono io? Perché sono in questo mondo? Cosa voglio? Verso cosa mi dirigo? Cosa sono per me il bene e il male? Cosa la morte? Cosa la verità? E cosa la felicità e la libertà? Qual è la mia relazione con il tempo? Quale, il senso della mia esistenza?
Dogmi e tradizioni, religioni e superstizioni si rivelano sulla strada talora come pretese di risposte semplici e coercitive, talaltra come interlocutori con i quali ridiscutere l’esperienza.
La formazione, oltre il romanzo
Una vitale disposizione all’esplorazione e alla meraviglia caratterizza donne e uomini in ricerca. Capaci di evolvere nel naturale sbigottimento scaturito dal fare esperienza delle cose che sono, dalla sfida al senso comune necessaria a trovare quello personale.
Soprattutto quando da quelle prime domande di stampo ontologico si passi a interrogativi d’ordine morale su questioni quali giustizia, amore, relazioni personali, società, politica.
Intersecare e percorrere tali quesiti scalzando le risposte ovvie è già fare filosofia. Ecco perché le pratiche filosofiche di consulenza individuale o familiare e i gruppi di meditazione possono accompagnare la vita quotidiana nell’edificare con coscienza e virtù il proprio benessere esistenziale.
La biografia di ognuno è un vero e proprio Bildungsromanche tracima dai limiti temporali imposti dal genere letterario e rinnova l’enigma della formazione ben oltre la maturità. Mantenendo del sostantivo tedesco Bildungl’ambivalente richiamo alla formazione e al processo che vi conduce.
Misurare la nostra relazione con le cose
In questa formazione mai conclusa, che costantemente conferisce agli individui il privilegio e l’onere dell’interrogazione, nuove domande si sostituiscono a quelle originarie di fronte alla vita che è supremo e incerto divenire. E una su tutte mi pare significativa per garantire che il processo resti tale così che le acquisizioni dell’esperienza e dell’intelletto non si trasformino in blocco: «Dove sono?».
Chiederci “dove” siamo implica la misurazione della nostra relazione con le cose. In termini spaziali, temporali, etici, emotivi, razionali, corporei e perfino verbali.
Per l’uomo che non può mai essere se non “in situazione”, circoscritto nel proprio orizzonte di soggetto che pensa, quell’avverbio ha il valore di una bussola. Tanto più prezioso se, con Jaspers, riconosciamo la certezza del naufragio come verità dell’essere, di fronte a quelle che il filosofo di Oldenburg definiva “situazioni limite”: fare i conti con la colpa, attraversare dolore e lotta, scontrarsi con la morte.
«Dove sono?». E-mergere per ex-sistere
«Dove sono?» è la domanda per chi, avendo abitato le altre tra risposte inevitabilmente parziali e sicuro ormai che ve ne siano di assolute che obbligano ad accettare la mancanza di soluzione, contempla antinomie e paradossi calibrandone la propria distanza.
Giusto il contrario di quell’alienazione dell’individuo di cui si parla da almeno due secoli, con esiti significativi e nondimeno provvisori, soprattutto in ambiti psicoanalitici e marxisti. Giacché cercare ogni volta i parametri della combinazione tra sé e l’altro da sé comporta la necessità di essere-presso-di-sé! Così emergendo (e-mergere è «il venire a galla di cosa tuffata) dall’indistinto dei fatti e degli enti per – letteralmente – ex-sistere!
Non è un caso se la metafora del naufragio ha attraversato la storia dei modi in cui gli uomini occidentali hanno raccontato se stessi.
Alla deriva in balia di una sorte bizzarra e cattiva…
Naufraghi sono Ulisse, Enea, e da La tempesta di Shakespeare a Moby Dick, da Horcynus Orca a Coleridge a Pinocchio è un rincorrersi di naufragi per secoli e nazioni. Fino all’insolita dolcezza sperimentata da Leopardi nell’immensità dell’Infinito, fino all’ossimoro ungarettiano dell’uomo scampato all’orrore della guerra, all’allegria del naufragio. Come naufrago – ma «uscito fuor dal pelago a la riva» – è Dante nei primi versi dell’Infernoche così vuol dire del percorso di salvazione dell’uomo. Il naufragio di Montale è forse il più violento: non esito di un viaggio bensì fatto già avvenuto a priori; stigma dell’uomo che rende vano il viaggio stesso. Una visione che, come ha rilevato il filosofo Hans Blumenberg nel celebre Naufragio con spettatore: paradigma di una metafora dell’esistenza risente di Lucrezio nel cui De rerum natura è la stessa «nascita dell’uomo a essere considerata come un naufragio».
Abbiamo esaurito la meraviglia?
Per Jaspers, autore ben noto al poeta ligure, il naufragio è «annientamento di tutte le cose e di tutte le certezze, di ogni stabilità e immutabilità».
Franco Marenco, professore emerito di Letterature Comparate all’Università di Torino, ha suggerito che la prospettiva di Montale predichi il tramonto dell’uomo animato da smania di conquista e, con esso, di un «esaurimento della meraviglia».
La nostra domanda, mi sembra allora, può esprimere la pienezza della propria fecondità proprio quando le altre rischiano di non fornire più carburante. È, con il suo appello all’autovalutazione della propria responsabilità rispetto al contesto e alla scelta di orientamento che ne consegue, realizzazione di sé nella dinamica tra situazione e libertà. Quella libertà che per il filosofo bavarese
non si dimostra tramite la comprensione bensì tramite l’azione.
Filosofia (in) pratica
Dalla certezza e dal governo di questa libertà possiamo ripartire. Sperimentando l’«autocoscienza logica» così come viene descritta nel saggio Della verità: non
la riflessione su di sé come osservazione psicologica del pensiero che osserva se stesso […] e nemmeno la riflessione su di sé della chiarificazione dell’esistenza […]. Essa è l’autocoscienza della ragione che supera tutte le modalità della riflessione su di sé.
Una via rivoluzionaria ci è offerta allora dal ribaltamento di prospettiva al quale ci autorizza una domanda come «Dove sono?». Nella verità responsabile e direi volontaria del naufragio non sono più la nostra indagine, la nostra capacità di pensiero, a tornare utili all’esistenza ma proprio il contrario. L’esperienza è, nella maturità, a servizio dell’interrogazione filosofica. Rimpolpando di carne, sangue, sudore e lacrime le teorie di un’ermeneutica del limite che hanno messo alla prova la tradizione del pensiero critico da Kant in avanti.
Filosofia (in) pratica.