La nostra felicità è una questione di mondo della coscienza e di coscienza del mondo. Per questo motivo può ancora aver senso andare a scuola da Aristotele.

di Federico Levy

«Perché accontentarsi della felicità se possiamo avere di meglio?» chiedevo un po’ provocatoriamente nel mio ultimo intervento su concetto di eudaimonia.

L’intento era mostrare come la felicità sia in buona sostanza un fatto di ricerca di conoscenza – così che la sua verità non è che una specie di dialogo. Con se stessi, certamente, e tuttavia non solipsistico. Non quindi chiudendosi in se stessi, in cui la propria visione delle cose rimane impermeabile a qualunque domanda. Giacché questo non sarebbe affatto un dialogo ma un monologo autoreferenziale, privo di senso, dannosamente ermetico.

Inoltre, un dialogo propriamente esistenziale: quindi aperto alla totalità del nostro essere, e quindi niente di più distante da un mero esercizio di erudizione mentale.

Saggezza è dialogo

Ogni essere umano, illustra Aristotele nell’Etica Nicomachea, punta alla felicità come suo fine ultimo. Desiderare la felicità, però, non basta. Occorre saggezza. Che difficile e inattuale parola! Ci si è abituati ad associare la parola all’immagine di un vecchio canuto al sicuro nell’eremo. Ma a tale immagine perfino il nostro Aristotele, che di barbe se ne intendeva, dissentirebbe. Saggezza è l’abito pratico razionale che concerne ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. Che, in chiave esistenziale, implica conoscenza di ciò che è bene e male per noi stessi. Nella nostra originalità di esseri umani. La saggezza è quindi strettamente legata alla nostra vita quotidiana: è l’esercizio di un sapere pratico che si orienta a partire dalle nostre situazioni concrete.

Il dialogo è un luogo cardine e privilegiato per la ricerca della felicità. E il suo esercizio è esercizio della saggezza, nel senso proprio del termine.

Chiediamoci, dunque: qual è la mia situazione? Qual è la sua saggezza? Mettiamoci in ricerca di essa, e ci avvicineremo a una felicità più piena, integra, consapevole. A una felicità più nostra e concreta e non a una rappresentazione astratta e irreale della felicità.

«Nella giustizia ogni virtù si raccoglie in una sola»

Eppure anche la saggezza, che è un tirocinio della coscienza, da sola non basta. A essa, secondo Aristotele, deve accompagnarsi l’esercizio delle virtù; le quali non sono semplicemente forme di conoscenza ma, si potrebbe dire in linguaggio contemporaneo, modalità comportamentali di essere che necessitano anch’esse di essere esercitate.

Di più, secondo Aristotele è dall’esercizio che si ottiene la virtù. Coraggio, temperanza, generosità, magnanimità, mitezza, sincerità, amabilità e altre.

E all’apice di tutte, la giustizia:

«La giustizia è la virtù più efficace, e né la stella della sera, né quella del mattino sono così meravigliose, e citando il proverbio diciamo: nella giustizia ogni virtù si raccoglie in una sola. Ed è una virtù perfetta al più alto grado perché chi la possiede è in grado di usare la virtù anche verso gli altri e non soltanto verso se stesso».

Parole impegnative, non c’è dubbio. Ma anche la felicità richiede impegno, essa nasce dall’impegno. Impegno che non esclude, ma include, la capacità di accogliere la felicità nei suoi momenti fugaci e inaspettati.

Socrate, nella Repubblica, riconosceva che “difficili sono, le cose belle”. Non foss’altro che per questo, può avere senso dunque fare il cammino in buona compagnia – ammesso e non concesso che sia possibile farlo quando ci si sente tristemente soli.

Anche noi in viaggio con Eudaimonia studio

Come facendo ginnastica, più ci si esercita e meno si fa fatica. Felici non si nasce ma…si diventa!

Non dobbiamo, naturalmente, fermarci ad Aristotele e ignorare il resto. Ma nemmeno dimenticarlo e far finta che il nostro tempo, per non si sa quale motivo, sia intrinsecamente più evoluto del suo solamente perché è venuto dopo. A dar per scontata l’evoluzione, infatti, ci si pone già in direzione della regressione.

Inoltre, buona parte della filosofia pratica contemporanea si è caratterizzata per la ripresa, mediata naturalmente anche dalle conoscenze contemporanee, di tematiche la cui origine è aristotelica e la cui portata d’attualità è ampiamente riconosciuta nel mondo delle scienze umane e della formazione. A cominciare da una ripresa del termineeudaimonìa, di quel “progetto di felicità” di cui abbiamo fornito un riassunto, inevitabilmente personale e senza pretesa di esaustività.

Per quel che ci riguarda, si parte (anche) da qui.

In questo consiste il paradosso in cui abbiamo scelto di stare: attribuendo al nostro studio di pratiche filosofiche un nome che non esprime naturalmente un qualcosa che offriamo, quanto piuttosto un qualcosa che noi stessi andiamo cercando. Perché l’eudaimonìa non è mai data una volta per tutte. Essa non è un prodotto, né una tecnica, né un libro in sé (nemmeno di Aristotele), né tantomeno una pillola o una magia. È una ricerca costante, come la vita stessa!

 

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