Il Bel Paese e l’epidemia. Tracce storiche e guasti contemporanei del falso mito per il quale un popolo ignorante sarebbe più facile da governare

di Francesca Guercio

L’impressione, reiterata tanto da divenire endemica, per cui un popolo imbestiato dall’insipienza sia facilmente governabile mostra da tempo la sua totale inattendibilità!

Il presentimento d’una sua possibile ragionevolezza politica nell’epopea nostrana fu di Francesco De Sanctis, che lo attribuì ai Borboni con il nobile intento d’incitare la collettività irpina a votare a favore dell’annessione al Piemonte in vista della costituzione del Regno d’Italia. In un proclama datato 16 ottobre 1860, poco prima di diventare Ministro dell’Istruzione, vergò una frase divenuta celebre, sia pure tra diverse trascrizioni.

Il governo borbonico aveva detto: facciamo questo popolo ignorante, povero e corrotto. Un popolo ignorante non ragiona, ma ubbidisce. Un popolo povero pensa al pane e lascia fare a noi.

Capace di coniugare, per mezzo di saldi valori etici, l’inclinazione democratica all’abito monarchico-unitario, De Sanctis pensava al referendum del 21 ottobre in vista di un nuovo Stato. E credeva fortemente nella scolarizzazione per l’affrancamento delle masse.

Gli italiani e la schiavitù spirituale

Ma sessant’anni dopo l’Unità d’Italia, il carattere nazionale forgiato in un’ignoranza che si pretendeva spianare la via a una comoda governabilità già mostrava la corda. Nel 1922, sulle pagine de “La Rivoluzione Liberale”, Piero Gobetti sottolineava quanto lavoro fosse necessario per un’uscita degli italiani da una sorta di schiavitù spirituale. «Abbiamo sempre saputo di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione». Così scrive l’intellettuale antifascista che, però, condivide il registro di sufficienza nei confronti dei connazionali con lo stesso Mussolini. E del resto, l’espressione ormai di dominio pubblico «Governare gli italiani non è difficile, è inutile» viene attribuita sia al dittatore sia a Giolitti. Che com’è noto dal 1924, pur avendo criticato la “secessione dell’Aventino”, avversò il duce per le limitazioni alla libertà di stampa.

L’eterna sciagura del “popolo bue”

Tra la formulazione di De Sanctis e le sconsolate analisi di Gobetti, si situa la pubblicazione di Psicologia delle folledi Gustave Le Bon (1895). Capitale per una comprensione, dal punto di vista antropologico, dell’approccio agli eventi di quella sorta di figura mitologica che è l’ubiquo “popolo bue”.

Il volume fu punto di riferimento esplicito per Mussolini, Stalin, Hitler, Roosevelt e connotò potentemente una teoria della leadership a partire dagli anni Venti del Novecento. Vi si legge che l’individuo che pure potrebbe essere un uomo civilizzato

nella folla diviene “barbaro” in preda all’istinto. […]  indotto a commettere atti contrari ai suoi interessi più ovvi e alle migliori abitudini. Un individuo nella folla è un granello di sabbia fra altri granelli di sabbia, mossi dalla volontà del vento.

O dalla volontà d’un capo che sappia sfruttarne la miseria, facendosi tiranno abile ad amministrarla a vantaggio degli obiettivi che riterrà valevoli.

La regressione davanti alla complessità

Di fronte a essi, legittimamente, si divideranno le opinioni dei sostenitori e dei detrattori; riportando in questa massa incivile e primitiva una qualche forma di ordine. Ma lo stesso Le Bon indica l’alea della disgregazione definitiva quando l’agglomerato folla sia troppo… rudimentale, diciamo così, per affrontare la complessità. Gli organismi sociali soggiacciono, in questo, sostiene il sociologo francese, alle medesime leggi di quelli biologici. Nell’incapacità di sostenere e interpretare l’articolazione del molteplice, piuttosto che attraversare un processo di differenziazione e ulteriore specializzazione, regrediscono verso forme più primordiali.

Le magagne dei sistemi governativi che hanno fatto perno sull’insipienza – e sulla bestialità che ne deriva – si mostra con enfasi in questi giorni. Presi d’assalto da un’emergenza sanitaria che ha raggiunto numerose popolazioni vittime del contagio da Sars-Cov-2.

Idiocracy: rassegnati al futuro

L’esplosione di superficialità che ha travolto la semantica politica italiana degli ultimi anni ha toccato picchi di ridicolo democraticamente trasversali. E da tempo le prove dell’infondatezza della pretesa di amministrare la società con i precetti dell’analfabetismo si moltiplicano a ritmi esponenziali. È ormai evidente, in tutti i settori, che le persone stolide non soltanto nuocciono alla coesistenza urbana ma procurano danni ingenti perfino a quel sistema economico che tanto sembra, sempre, preoccupare i Regimi a qualunque latitudine.

C’è un buon film diretto da Mike Judge nel 2006 che riesce a mostrare con brutalità grottesca il destino che attende un’umanità depauperata dell’ingegno. S’intitola Idiocracy e mette in scena una collettività in cui la tragica riduzione del lessico e il calo del QI riverberano conseguenze apocalittiche sul pianeta.

Sul ponte sventola bandiera bianca

I costi non soltanto in termini di civiltà, fratellanza e progresso ma anche banalmente monetari sono prefigurati brillantemente nella citta ridotta in macerie, nei terreni inariditi.

Indifferenza ad accumuli di spazzatura fuori controllo, aggressività fisica e verbale, limitatezza sintattica che restringe il pensiero sono il leit-motiv della distopia. Che il regista immagina nel 2505 ma che per quanti, come me, abbiano a che fare con studenti della scuola dell’obbligo sembra legittimamente anticipabile.

La necessità di invertire la rotta è impellente. E non può che partire dall’impegno di riscossa del singolo, determinato a fronteggiare il sistematico smantellamento delle istituzioni scolastiche e gli appelli deliranti dell’idioletto politico. Lo hanno dimostrato in quest’emergenza le folle “senza sete di verità” e ansiose solo “di vivere di speranza” – per usare termini di Le Bon – rispondendo ottusamente a richiami dissonanti e ugualmente pericolosi.

L’eroismo dell’uomo moderno

Di chi li voleva – da fazioni opposte – convinti dell’eccellenza italiana nella ricerca scientifica o vittime di un malgoverno da denunciare ai quotidiani stranieri. Generosi abbracciatori di cinesi o reduci spelacchiati della Milanodabere che “non ferma l’economia” a suon di acquisti nei centri commerciali e spritz. Un popolo talmente bue da essere tutt’altro che facilmente governabile. Capace di assaltare negozi di generi alimentari, di trasformarsi in untore di regioni con tasso di epidemia limitato e strutture sanitarie scadenti.

Gustav Le Bon ricordava come soltanto la cultura permette la riscossa, quella dell’«empire de soi».

Mettiamoci, dunque, da subito, silenziosi all’opera nostra, secondo l’appello di Gobetti con cui vi (ci) lascio.

perché il nostro spirito non è nulla, è vilmente miserando se per un momento si astiene da quell’attività che è un dovere. Conservare il senso di responsabilità per tutto. Questo è l’eroismo tragico perché silenzioso, perché umile e sconosciuto dell’uomo moderno.

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