Maturità non è maledire il terreno ma neppure permanere nonostante tutto. Possiamo rendere sacre le radici separando da noi quelle guaste e predatrici

di Francesca Guercio – articolo apparso per la prima volta sul sito www.benessereitalia360 il 3.9.2019

Circola in rete da un paio d’anni un testo tratto dal blog di Cinzia Pennati che molti genitori illuminati continuano a condividere sui social. È ricco di semplici ma preziosi consigli per l’educazione dei ragazzi alla consapevolezza, alla libertà e alla responsabilità. L’autrice raccomanda, a chi ha cuore e intelligenza per ascoltare, un elenco di «cose da dire alle nostre figlie e ai nostri figli» non sempre scontate né piacevoli. Talora perfino in antitesi con i modelli di una certa tradizione occidentale che insiste sui valori incrollabili della famiglia.

«Dovremmo dire alle figlie e ai figli che non sempre un padre e una madre sono un porto sicuro. Alcuni fari non riescono a fare luce», scrive l’autrice con evidente sprezzo del pericolo. Osando provocare non soltanto le leggende casarecce sulla granitica affidabilità dei consanguinei ma anche certe versioni più dotte delle medesime, autorizzate da studi psicologici sulla presunta inattaccabilità delle radici.

E se trovassimo identità tagliando le radici?

Inattaccabilità che si vorrebbe funzionale alla garanzia e al mantenimento di un’identità personale, altrimenti affidata all’alea della disgregazione.

Mi capita assai spesso di confrontarmi con clienti, amici e perfino familiari sul tema della relazione con la schiatta d’appartenenza. E quasi sempre constato una seria difficoltà ad accettare di lasciare andare, di svincolarsi, di recidere; anche quando si palesi con evidenza la costituzione minacciosa di talune radici.

La metafora è scontata: una pianta senza radici avvizzisce, si dice. Quindi meglio vocarsi al martirio, ingoiare il veleno sforzandosi di trasformarlo in occasioni di crescita, in esercizi di perdono non proprio scevri dal senso di colpa.

Eppure nei decenni ho osservato con quanta cura mia madre, appassionata di floricoltura e orgogliosa vestale di un terrazzo davvero floridissimo, si dedichi a svasare le piante per alleggerirle dalle barbe. «Il groviglio di radici le soffoca», sostiene. A giudicare dai risultati, sarebbe presuntuoso provare a smentirla.

Il riconoscimento non vincola all’accoglienza

Evidentemente, entrambe le valutazioni esprimono una verità.

Che sarà particolarmente utile indagare, se pensiamo di servircene al fine di rivolgerle all’esplorazione dei processi umani.

L’invito alla riconciliazione è frequentemente presentato nei percorsi di introspezione ed emancipazione spirituale alla stregua di una conquista da raggiungere. Molte teorie psicoterapeutiche dànno per assunto che una piena maturazione individuale debba passare attraverso il riconoscimento e l’ammissione delle proprie radici. Il che a mio avviso è senz’altro giusto, a patto che questo non comporti una prescrizione di accoglienza che vincoli all’ospitalità; benché più o meno condizionata.

Acconsentire di fare parte di un sistema, vedere con chiarezza le radici e il modo in cui esse ci alimentano non implica di per sé la legittimazione del sistema e delle radici stesse.

Le radici morbose, quelle dalle quali arriva nutrimento tossico o che rischiano di soffocarci possono essere beneficamente rimosse poiché ciò implica non la perdita di identità bensì l’inizio di un processo di individuazione.

Schiavi della «superstizione parentale»?

Ciò in virtù di un paradosso banale: per risolverci a troncare qualche radice, infatti, dobbiamo prima essere entrati in relazione con esse e averne compreso con onestà il portato nocivo. Il che ci àncora potentemente a chi siamo. Non è infrequente, al contrario, che molte relazioni con la famiglia d’origine siano trascinate per abitudine tanto da costituire esse stesse il principio di quel paventato sradicamento!

La consapevolezza dell’opportunità di una rescissione, pertanto, non è esente dalla gratitudine e dal rispetto nei confronti del rizoma che ci ha permesso di sbocciare. Insegnandoci ciò che siamo, per sottrazione e scarto. Senz’altro un genitore che sia un “faro spento”, per tornare alla metafora della Pennati, ci chiede di metterci in salvo, allontanandoci una volta per tutte dall’inganno di ritenerlo porto. E tuttavia con la sua dannosità si è assunto forse il compito educativo più ingrato, impartendoci la lezione di lasciare andare il «cattivo seme», per dirla con il James Hillman de Il codice dell’anima.

Il celeberrimo volume dello psicoanalista e filosofo statunitense è di grande aiuto per sgomberare la strada della nostra fioritura da quella che egli chiama «la superstizione parentale» secondo la quale «L’anima individuale continua a essere immaginata come un frutto dell’albero genealogico».

Consulenza Filosofica: un riferimento ideale

Quell’albero invece è soltanto l’opportunità di un inizio, un territorio dal quale cominciare a prendere le misure scegliendo con serietà e secondo coscienza ciò che ci pare il Bene.

Saggezza non è maledire le basi, distruggerle o fuggire, ma neppure permanere nonostante tutto.

Saggezza è rendere sacre le radici; separando da noi quelle guaste, asfissianti, predatrici mentre tuttavia le benediciamo per quanto sono riuscite a insegnarci di noi stessi.

È un percorso lungo, impervio e continuamente passibile di errori che rischiano di rivelarsi fatali. Per questo può richiedere l’assistenza di compagni di viaggio bene equipaggiati, lucidi, franchi e alieni ai dogmi di scuole di pensiero, modelli e ideologie. Nella direzione della consapevolezza.

Le caratteristiche proprie della prassi della Consulenza Filosofica ne fanno, dunque, un punto di riferimento ideale. Capace di arricchire gli strumenti e la chiarezza con cui interroghiamo la storia della nostra vita.

«Essere all’erta, essere consapevoli, essere coscienti»

Osho Rajneesh – che fu professore di filosofia prima di diventare maestro spirituale! – scrive in Bodhidharma: The Greatest Zen Master:

Se in te non prende vita la consapevolezza, tutta la tua morale è falsa, tutta la tua cultura non è altro che uno strato sottile […]. Ma se la tua morale sgorga dalla tua consapevolezza, e non da una precisa disciplina, allora è una questione del tutto diversa. […] qualsiasi cosa scaturisca dalla consapevolezza è bella, è giusta […]. Pertanto, anziché potare le foglie e i rami, taglia le radici. E per tagliare le radici esiste un solo e unico metodo: essere all’erta, essere consapevoli, essere coscienti.

Pensare in maniera critica, coniugando razionalità, libertà ed etica, consente di analizare correttamente situazioni complesse e talora intricate che sono andate costituendo la nostra essenza. Chiediamoci: quanto spesso lo sviluppo della nostra vita è ostacolato più da confusioni e dubbi che da limitazioni esteriori?

 

 

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